Preadolescenti tra challenge social e sfide sociali



di Alessia Bleve

Challenge social e sfide sociali. Riflessioni in margine, per un chill out consapevole.

questo articolo verrà pubblicato in "Formare... a distanza?", II edizione, C.I.R.C.E. novembre 2020

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Tanto tempo fa in una galassia lontana lontana c’erano quelli che, come me, avevano tra gli undici e i quattordici anni negli anni Novanta, troppo cresciuti per essere ancora bambini, troppo ingenui per essere adulti, in quella delicata fascia che cerca una definizione, un’appartenenza che spazzi via il senso profondo di inadeguatezza.
Ci chiamavamo “i ragazzi del muretto”, come si definivano quelli più grandi, anche se nessuno di noi più ragazzini aveva mai visto neanche una puntata di quella serie televisiva. Ma l’etichetta ci piaceva tanto. E un muretto sul quale stavamo tutti seduti c’era veramente. Un muretto pericolante, sgarrupato che per qualche motivo sconosciuto richiamava tutti, ma proprio tutti, i ragazzi del quartiere, di tutti i tipi e di tutte le età.
Il mio era un quartiere particolare, definito “difficile”. Popolare e popoloso ad alto tasso di criminalità. C’erano molte leggende intorno al mio quartiere. E molte, onestamente, non erano leggende. Di notte si sentivano spesso colpi di pistola lacerare il silenzio della strada. E tra i miei ricordi di infanzia ci sarà sempre il forte odore, o puzza, di lamiera bruciata che impediva il respiro e restava ore nelle narici. E nella strada. Quella stessa strada che il pomeriggio però era nostra. Di tutti noi ragazzi.
Alle nostre spalle, a pochissimi metri di distanza da quel muretto, si trovavano: la piazza di spaccio più importante della città, la campagna per i buchi che serviva anche per le corse clandestine in moto, le case dove si facevano i “pockerini”, gli appartamenti per “chi non poteva uscire di casa” (erano tante le persone agli arresti domiciliari).
Ma noi ragazzi comunque vivevamo quella strada. E questo assembramento di persone era molto vario e pittoresco. I nostri genitori erano ovviamente ben al corrente del luogo in cui ci trovavamo. Ma a nessuno veniva in mente di dire “non si gioca giù oggi”.
I miei genitori hanno preteso per tutti gli anni che ho trascorso su quel muretto di conoscere personalmente tutti i miei amici. E le mamme dei miei amici. C’era una meravigliosa staffetta del controllo che andava da adulto ad adulto e copriva praticamente tutto il quartiere; a turno si affacciavano alla finestra a controllare; ogni tanto scendevano a passeggiare. Lontano, ma con lo sguardo sempre attento e vicino. E anche i ragazzi più grandi furono reclutati per controllare i più piccoli. Era come avere uno stuolo di cugini più grandi che sorvegliavano e “insegnavano”: si fumava solo quando c’erano loro; si beveva solo quando c’erano loro. In moto si andava solo con loro. In giro si andava solo con loro.
Il punto di forza per ognuno di noi erano gli altri. I miei e tutti gli altri genitori ci facevano “scendere giù” solo se vedevano gli altri, i coetanei e quelli più grandi, altrimenti non era consentito scendere da casa. “Mai, mai da sola devi stare” diceva mia madre. Prima a me e poi a mio fratello più piccolo. No, la solitudine non è fra i miei ricordi. Tra i miei ricordi di allora c’erano i piani per fregare i genitori e gli amici più grandi se ti volevi appartare con il ragazzo che ti faceva battere il cuore in quel momento. Ma anche in quel caso non si era soli. Avevi sempre il tuo “nucleo di complici”.

Sono passati molti anni da allora. Siamo cresciuti tutti, molti sono andati via per lavorare e vivere. Qualcuno è in galera. Qualcuno in un mondo migliore, si spera. E non c’è più neanche quel muretto. È stato sostituito da uno più bello e più alto sul quale non si può sedere più nessuno.
Quel quartiere è ancora popolare e popoloso. I figli di alcuni di quelli che sedevano sul muretto con me che hanno oggi 11-14 anni non stanno per la strada. A parlarci non sono per niente male; hanno tanto da raccontare. Parlano di emozioni, di litigi, di “farfalle nello stomaco”, di sostanze stupefacenti, di esperienze sopra le righe e del bisogno di sentirsi accettati e di avere amici con i quali condividere ogni passo. Sono anche meno tontoloni di noi degli anni Novanta. Non portano lunghi maglioni e anfibi per nascondere le forme che cominciano a delinearsi su corpi in crescita. Le ragazze soprattutto. Sanno come sembrare più grandi e più belle, come sperimentare la sessualità non dando per scontato di sentirsi attratte “dal maschio”.
La differenza è proprio “quel muretto” che non c’è più. C’è un modo diverso di essere insieme ed essere sociali. C’è uno smartphone e ci sono i social che proiettano fuori dalla tua casa la tua immagine costruita e studiata. È lì che incontri la persona che ti attrae, che la vedi la prima volta e inizi a fantasticare. È lì che condividi le tue esperienze ed è lì che ne cerchi di nuove. Non cambiano le emozioni (amore, rabbia e paura) ma cambia il modo di socializzarle, incontrarle ed esprimerle.
Qualche mamma un po’ più grande di me si sentiva sollevata dal fatto che la figlia non usciva quasi mai, ma trascorreva il giorno intero a casa o da sola o con poche elette amiche. Sollevata dal fatto di sapere sempre dove si trova. Ma in realtà è un’illusione di controllo, non è vero. La madre sa perfettamente dove suo figlio si trova fisicamente, ma non sa assolutamente, cosa sta vivendo, chi sta incontrando, che esperienze si trova davanti e con quali persone con quali intenzioni si deve interfacciare.
La vulnerabilità della persona in crescita, dei suoi dubbi, delle paure, del bisogno di mettersi in mostra e fare “marachelle” è inalterato. Ma non c’è più una finestra da cui affacciarsi per controllare, non c’è più la certezza di conoscere gli amici, non c’è più la certezza di avere intorno amici più grandi e “sorveglianti” che vegliano e in qualche modo fanno da cuscinetto. Per la vita.
L’esperienza tecnologica sempre più impattante nel quotidiano di ognuno di noi ha portato con sé un pensiero errato, ma diffuso. Ci ha portato a pensare che, nascosti nelle nostre case e avvolti dalla sola luce dei pixel, non abbiamo più bisogno di imparare ad affrontare i rischi connessi alla socialità e alla relazione con l’altro. Proprio noi più adulti non abbiamo capito che non è cambiata la natura umana, ma la maniera di manifestarsi della natura umana, con le sue bellezze e le sue brutture.
Non abbiamo capito che la socialità e i bisogni ad essa connessi sono inalterati, ma passano da uno schermo, da un social, da una app e da una challenge. E che, paradossalmente, siamo ancora più a rischio. Anzi! Siamo in pericolo perché invece di spazi condivisi, pur se rischiosi, ci sono spazi “privati”, di solitudine. Il rischio si può calcolare, minimizzare grazie a protezioni, precauzioni e pratiche solidali; invece il pericolo è ignoto. In ogni caso, non esiste una porta che possiamo chiudere per lasciare fuori tutti quelli che ci fanno paura e tutto quello che ci fa paura perché tutto questo è sempre con noi. I pericoli hanno nomi diversi (quelli delle app e delle challenge che cambiano come cambiamo i calzini), ma lo spazio “safe” è sempre più risicato perché anche la solitudine non può essere raccontata nello stesso modo se la socialità è legata ad un device. Se basta un dispositivo per “essere in compagnia” dove ci rifugiamo per essere soli?

E allora? È ora di rendersi conto che serve una “chill out”, una sorta di spazio di decompressione per sperimentare il rischio di vivere senza essere gettati inermi e soli di fronte al pericolo estremo.
Luoghi in cui imparare che non ci si può fidare di tutti, che occorre proteggersi, valutare i rischi, eventualmente difendersi. Sicuramente non va bene consegnarsi inermi. Come lo facciamo? Proviamo a pensare ai social come pensavamo alla strada, pullulante di “quelli che puoi incontrare” e “quelli che camminano con te”. E costruiamo un muretto sul quale tutti ci possiamo sedere. Togliamoci i sorrisetti giudicanti di chi non capisce la tecnologia e la nuova socialità e la liquida troppo frettolosamente e superficialmente, mostrando un gap che da minimo può diventare un baratro enorme. Lasciamoci andare ai ricordi e raccontiamo chi siamo e come eravamo. Se ci offriamo senza pregiudizio è ben probabile che in cambio ci vengano offerti pezzi di anima e di vita. Proviamo a ricostruire spazi di socialità fisica, di relazione orizzontale, includenti.

(Penso tutto questo mentre guardo mia nipote, 13 anni, mentre cerca musica su youtube. Scopro che oggi niente trap. Cercava gli skid row su youtube, dopo il racconto mio e di sua madre dei biondi e bellissimi capelli di Sebastian Bach. E mi dico che forse, posso essere all’altezza dei miei complici e “sorveglianti” tra i “ragazzi del muretto”).

Occorrono anticorpi e devono essere anticorpi sociali. Occorre parlare di relazione e di potere, di vulnerabilità e di violenza, di consenso e di manipolazione. E occorre capire che forse, oggi, ognuno di noi può essere questi anticorpi, queste chill out o anche solo il muretto della mia adolescenza. Ognuno di noi può iniziare a tenere alta l’attenzione e rafforzare i legami personali, affettivi ed educativi. Questa è la nostra challenge, una sfida per tutti noi.

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